La situazione della mortalità neonatale legata all’HIV in Africa continua a destare preoccupazione, nonostante l’avanzamento delle diagnosi rapide e delle terapie antiretrovirali. Due recenti studi, guidati dal consorzio internazionale Epiical, un’alleanza di ricerca coordinata dalla Fondazione Penta e dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, evidenziano come i tassi di mortalità restino elevati e svelino nuovi biomarcatori che potrebbero aiutare a prevedere il rischio di morte tra i neonati affetti.
Tassi di mortalità preoccupanti tra neonati affetti da HIV
Il primo studio, pubblicato da Lancet e Clinical Medicine e condotto dai ricercatori dell’Ospedale Universitario Ramón y Cajal di Madrid, ha esaminato un campione di 215 neonati affetti da HIV provenienti da Sudafrica, Mozambico e Mali. Questi bambini hanno avviato il loro trattamento antiretrovirale entro sei mesi dalla nascita e entro tre mesi dalla diagnosi dell’infezione. Nonostante questa tempistica favorevole, i risultati sono allarmanti: il tasso di mortalità si attesta al 10% entro il primo anno di trattamento, mentre la cifra raggiunge il 12% entro il secondo anno di vita, continuando a mantenersi su questo valore anche dopo tre anni. In confronto, in Europa, tale tasso è inferiore all’1%.
Le cause di questo trend negativo sono molteplici e includono una carica virale elevata al momento dell’inizio del trattamento, nonché condizioni sociali sfavorevoli che ostacolano l’aderenza delle famiglie al piano terapeutico. Questo studio mette in luce non solo la criticità dei fattori legati alla salute fisica dei bambini, ma anche la necessità di intervenire su fattori socio-economici e ambientali che incidono profondamente sulla loro salute.
La ricerca sul biomonitoraggio e i biomarcatori del rischio
Sulla base dei risultati del primo studio, una seconda ricerca ha analizzato i campioni di sangue dei neonati coinvolti, portando alla scoperta di proteine nel sangue che potrebbero fungere da indicatori predittivi di mortalità. Questo studio, pubblicato sulla rivista Nature Scientific Report, è stato condotto a Roma da un gruppo di ricerca dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù in collaborazione con l’Università di Roma Tor Vergata.
I ricercatori hanno identificato che alti livelli di due proteine, IL-6 e CXCL11, nel sangue dei neonati affetti da HIV sono correlate a un aumento del rischio di morte. Questi risultati suggeriscono che la misurazione di questi biomarcatori infiammatori potrebbe costituire un passo cruciale nel miglioramento dell’assistenza ai neonati affetti da HIV. La capacità di identificare rapidamente i bambini a maggior rischio di mortalità potrebbe consentire interventi terapeutici personalizzati, mirati a migliorare le loro prospettive di vita.
Necessità di strategie di supporto e interventi mirati
Paolo Palma, responsabile di Immunologia Clinica e Vaccinologia del Bambino Gesù e coordinatore della ricerca condotta a Roma, ha sottolineato l’importanza di sviluppare strategie di supporto per le madri e i neonati durante e dopo la gravidanza. Tale approccio potrebbe contribuire in modo significativo al miglioramento della sopravvivenza dei neonati affetti da HIV.
Individuare precocemente i biomarcatori infiammatori potrebbe non solo facilitare l’accesso a trattamenti più appropriati, ma anche migliorare l’efficacia delle terapie già disponibili. Questo rappresenta un obiettivo fondamentale nella lotta contro l’HIV pediatrico, specialmente in paesi dove la prevalenza del virus è più alta e le risorse per le cure sono limitate.
Il consorzio Epiical e la sua missione
Dal 2015, il consorzio Epiical si impegna attivamente in progetti di ricerca e assistenza clinica per il trattamento dell’HIV nei bambini, focalizzando gli sforzi soprattutto nei Paesi meno abbienti. La collaborazione tra i principali centri di eccellenza per l’HIV in Europa, Africa e Stati Uniti mira a sottolineare la gravità della situazione e a potenziare le azioni per contrastare l’infezione in età pediatrica.
Questi studi non solo fungono da base per future ricerche, ma evidenziano anche la necessità di un approccio globale e multifattoriale per affrontare la crisi dell’HIV neonatale in Africa, un problema che richiede l’attenzione e l’impegno della comunità internazionale nel suo insieme.